Questo scritto, pubblicato sul V numero della rivista L’Erbaspada, nel 1985, è stato citato con le seguenti parole da Manuela La Ferla, nella bibliografia del suo Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen Sellerio Editore, Palermo, 1994, prima monografia su Bazlen:
“Su Roberto Bazlen non esistono saggi specifici, fatta eccezione per Cacciari M. Un’oscura via di città vecchia, in Dallo Steinhof; Calasso R., Da un punto vuoto, intr. agli Scritti; Damiani R. Roberto Bazlen, uno scrittore di nessun libro, “Studi novecenteschi”, n. 1, 1988; Denini F., Mare interno, “L’Erbaspada” anno II, n.1, 1985; Solmi S., Nota, intr. alle Lettere Editoriali; e dello studio di Hutter, R. M., Die Unmöglickeit des Heroischen, pubblicato insieme a brani del Schiffskapitän, nell’originale tedesco, su ‘Akzente’, n. 39, maggio 1992, Monaco, Hauser Verlag.”
Inoltre, ho ritrovato esplicito riferimento all’immagine d’attacco di questo mio appunto nell’introduzione (pubblicata su internet) di Paolo L. Bernardini a un suo libro del 2010, che non ho ancora avuto modo di leggere (P. L. Bernardini Di qua e di là dal mare. Venezia e il mondo universo. Aras Edizioni, 2010). Detto per inciso, quando, nel 1992, ebbi modo di scorgere per la prima volta l’impianto architettonico realizzato da Renzo Piano per il Porto Antico di Genova, fu divertente coglierne una qualche somiglianza con quella mia visione piuttosto enfatica – la mia, non quella di Piano – e, di fatto, del tutto occasionale, se non per l’allusione a certa visionarietà à la Campana. Ecco, comunque, il passo in cui Bernardini ricorda quella mia immagine, evidentemente rimasta impressa:
“Genova mi appare quale la figurò anni fa il musicista Francesco Denini, la gigantesca mano di un naufrago che s’appiglia, disperata, incerta ancora tra la sopravvivenza e la morte per acqua, ad una catena di montagne. Le montagne tuttavia non nascondono la pianura, ma altre montagne. Così se il naufrago scamperà alle onde, lungo sarà il suo cammino per giungere alla pianura, la sola che dia vero ristoro dell’anima, e dei sensi. E garantisca il perpetuarsi della vita”.
Tali menzioni e certuni argomenti musicali a mio avviso ancora fertili mi spingono a riconsiderare questo testo. Certo, l’affermazione secondo cui non esistono saggi specifici su Bazlen, eccezion fatta per i pochi indicati, posso presumere fosse vera, forse, nel 1985. Ora non vale più e, anzi, intendo riscrivere il testo d’allora, tenendo invece conto di tutti gli studi su Bazlen usciti dal 1994 ad oggi, dopo l’uscita, cioè, del libro di Manuela La Ferla. Un testo utile è: Valeria Riboli Roberto Bazlen editore nascosto Fondazione Olivetti Ivrea-Roma 2013. Un altro testo, che devo ancora raggiungere, ma la cui lettura intuisco imprescindibile, è: Giulia De Savorgnani Bobi Bazlen, sotto il segno di Mercurio Lint, Trieste 1998. Fondamentale, naturalmente: Roberto Calasso L’impronta dell’editore Adelphi, Milano 2013. I miei appunti continueranno a focalizzarsi su tre obbiettivi: 1) l’influenza letteraria che Bazlen ha avuto su Montale almeno sino a La Bufera e altro, i tratti di profondità della quale meritano, credo, ulteriori esplorazioni; 2) l’assimilazione che Bazlen compì di psicanalisi e psicologia analitica nel suo approccio alla letteratura e alla consulenza editoriale; 3) la rilevanza di tale assimilazione lungo la linea di confine tra parole e musica e tra senso e suono (sebbene si dicesse lontano dalla musica, la sua capacità d’intuire la rilevanza di Schumann, Busoni o Cage estende i suoi effetti ad altri aspetti della musica del Novecento). Tre obbiettivi, questi, che richiedono presupposti da me davvero troppo impropriamente tratteggiati trent’anni fa; né considero oggi questo lavoro molto più che un riordino, mai definitivo, di una prospettiva sempre in divenire. Come per altri appunti del passato, rendo visibile su questo sito tale lavoro di riscrittura, perché, in questa fase, è per me importante una comunicazione in fieri con scritti, siti e persone diverse, che mi permetta di ottenere una messa a fuoco la più possibile adeguata. In generale, credo sia possibile conciliare web e scrittura, e sia sensato usare gli spazi web per far evolvere quei testi che, una volta raggiunta la consistenza cercata, si potrà pensare eventualmente di raccogliere in libro. Citerò i diversi passi d’autore in lingua originale, nella misura in cui riuscirò a trovarne documentazione in rete o in libro, al solo scopo di rendere il più possibile solido il testo e ampliare parimenti la mia preparazione. Indicherò invece normalmente le edizioni e i traduttori dei testi riportati nella traduzione in italiano. Per tali ragioni, questo appunto, tutto volto al futuro e al confronto, può dirsi solo, almeno per ora, e in questo spazio, davvero, un work in … (si spera) progress.
Foto di Mariapia Branca
[situazione: I capitolo, composto di cinque capoversi, è in ordine. Devo quindi finire il secondo capitolo (13 paragrafi) e il terzo capitolo (sette paragrafi), controllare le note e togliere altre aggiunte]
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MARE INTERNO
Considerazioni letterarie – e anche in qualche modo ‘musicali’ – ripensando a Roberto Bazlen
Genova e Trieste
Was ist an einem Buche gelegen, das uns nicht einmal über alle Bücher hinweg trägt?
(F. Nietzsche)
Chiunque abbia avuto l’occasione di affacciarsi dal ponte di una nave alle prime luci dell’alba al largo del porto di Genova riporterà lo stesso dispiegarsi di un’identica visionaria verità: non gli edifici di una città, ma la mano ciclopica di un immane naufrago latente nelle acque, attanagliato alle montagne piombanti sul mare, si fa, ad ogni suo apparire, significante di una vita di costa sbilanciata oltre l’orizzonte da una vorace ed inesausta ossessione oceanica. Si deve a Carmelo Bene l’accostamento, nei primi anni Ottanta, della lettura di Genova di Dino Campana (1913-28) a una sua versione del Canto XXVI dell’Inferno dantesco – quello in cui Dante incontra Ulisse – durante il quale l’iniziale alito di voce si decuplica nel corso dell’interpretazione in un urlo prolungato e delirante di parole, rappresentante la sorte tutta di quel decorso, virtualmente ligure, che, per un allontanarsi progressivo dell’interlocutore supposto o fantasmato, procede terrificato al colmare del vuoto (1). Responsabile solo di sé stesso, l’uomo di costa tenta così ancora nel linguaggio, se non nel viaggio, il suo arrischiato e inquietante desiderio d’eternità. La parabola poetica che colloca al fondo della Modernità tale desiderio, mostrandolo come il lato in ombra di tale sentimento oceanico, si annuncia notoriamente con Le Voyage di Baudelaire (1861), au fond du gouffre tra inconnu e nouveau, per giungere a naufragare nel keroma voyant de Le Bateau ivre di Rimbaud (1871) (2). Ma timbricamente è prossimo a molti luoghi della letteratura ottocentesca: dal Achab melvilliano (1855), forse sulla scia del Faust di Goethe (1808-32) a certi tratti dell’estetica romantica di Shelley e di Keats, da un lato, e al song of myself di Whitman, dell’altro. E il grande archetipo marino che tale parabola consegue risuona pienamente in un preciso passo di Nietzsche, da La gaia scienza (1882), espressamente dedicato a Genova: “… qui, ad ogni angolo di strada, trovi un uomo che sta per sé stesso, che conosce il mare, l’avventura e l’Oriente, un uomo che è avverso alla Legge ed al vicino come a qualcosa di tedioso, e che misura il tutto già costituito e già antico con l’invidia nello sguardo: egli vorrebbe, con una mirabile sottigliezza della fantasia, dare ancora una volta nuove fondamenta a tutto questo, almeno nel pensiero, sopra posarvi la mano e dentro il suo intendimento – fosse anche per l’attimo di un meriggio assolato, quando la sua anima insaziabile e melanconica si sente per una volta sazia, ed ai suoi occhi è qualcosa di proprio e non già di estraneo, che finalmente può mostrarsi.” (3).
Da una città agli ipogei del Moderno come Genova, quasi un immemore prodromo d’occidente, guardare a Trieste, intesa propriamente quale asburgica città di frontiera,e sotto l’egida d’una precisa intuizione nietzschiana, ha un suo preciso senso. Trieste ha conosciuto un diverso rapporto con l’altro da sé. Immersa nella Kultur e nella Bildung mitteleuropea, essa rappresentò per l’impero asburgico, in senso ad un tempo letterale e metaforico, l’unico accesso al mare (4). La sua complessità non nasce da una tensione prometeica verso il mondo, ma da una sua particolare struttura ‘a crocevia’ che Roberto Bazlen descrive puntualmente in una sua annotazione intitolata Intervista su Trieste. Le molte conflittuali identità di Trieste, irredentiste, austriache, ebraiche, orientali, hanno generato un clima intellettuale alternativo alla cultura italiana, un clima dove il sentimento della crisi, d’ascendenza mitteleuropea, una certa qual lontananza dal crocianesimo e un’idea di verità alternativa al senso di bellezza, all’accademismo, al formalismo italiano hanno trovato pieno seguito. Di conseguenza non quindi solo la lirica o la prosa d’arte, ma il romanzo, hanno trovato finalmente in Trieste una qualche terra fertile. La cultura italiana “da Dante in poi”, almeno secondo Bazlen, è “cultura solidificata, trionfo degli specialisti della testa, dell’occhio, dell’orecchio, critici, pittori, musicisti, e non c’è posto per quell’immenso dilettante che è il romanziere … manca di quello screzio, di quella incrinatura, da cui sorgono la malsicurezza ed il dubbio, padri dell’osservazione, dell’introspezione, primo passo, unica premessa per l’interesse ‘psicologico’.” E, con queste parole, annotate in previsione di una Prefazione a Svevo, l’autore de Il Capitano di Lungo Corso disse tutto anche di sé (5): i fantasmi costieri di questo reale ‘frammento di romanzo’ giungono al lettore avvolti da una spessa patina caricaturale, non intendendo essere altro che bozzetti d’una trama tanto più trita, quanto più insistente, pervasiva e universale. Il loro rapporto con il mare, d’una qualche ascendenza kafkiana e rothiana, e solo lontanamente memori dell’esperienza lirica di Saba, è opposto al rapporto col mare vissuto da Montale nella raccolta Mediterraneo (1924). La soggettività narrante di Bazlen prende subito un distacco dal narrato, fino a sparire dietro la più squadernata resa allegorica, là dove in Montale – che per ben tre edizioni rinnovò la dedica di quella sua raccolta ‘a Bobi B.’ (e che, almeno sino al 1971, si mostrò coinvolto, non senza discordanze, dal suo ricordo) – l’io poetico non può che vivere l’invocazione simbolica in prima persona (6).
L’immagine odìssea e dantesca in Ossi di seppia di Montale (1925) si distilla entro un più urgente distacco di ‘rottami’ dal Alcione dannunziano. Il canto inclina al più scabro vaglio esistenziale e consegna il singolo al tempo. L’incontro estatico è riverberato nel ricordo, accennato nell’attimo, intravisto nel suo opposto (7). E il verso s’orienta verso quel particolare emendarsi stilistico che si compirà più chiaramente in Le occasioni (1940) e in La bufera e altro (1954), un emendarsi anche in parte dovuto al dialogo con Bazlen, forse più di quanto Montale non potesse ammettere (8). Se ne intravede testimonianza in poesie come I morti di Ossi di seppia (1927), canto da tratti kierkegaardiani, molto apprezzato da Bazlen (e che avrà un ruolo nella stessa ricezione italiana di Kierkegaard) (9). In Bazlen, per contro, l’opzione del romanzo assume senso in rapporto a una critica metaletteraria più vasta ed ambiziosa. La sua mercuriale ironia si nutre di un esercizio mai irrigidito alla screziatura analitica altenberghiana e musiliana, alla sprezzatura critica krausiana, alla flaubertiana resa apparente al ‘banale’ e al ‘mediocre’, e finanche alla compassione tolstoiana o alla tenerezza checoviana per l’intero genere umano, alla pratica dell’understatement wildiano, alla proustiana ‘riduzione all’osso’ di ogni alibi pubblico o privato, sino a lambire tratti tragicomici e jobici di Kafka e un ‘conflitto col materno’ beckettiano ante litteram, oltre ogni difesa narcisistica e anzi memore dell’ironia cervantesiana, costitutivamente romanzesca, verso l’immaginazione ‘libresca’ e intrinsecamente affine a ogni tipo di resa amletica al bagnomaria alchemico del dubbio (10). Tale ironia è appunto indice di quella “vocazione allo studio psicologico” di cui parla esplicitamente Bazlen, allorché nella poesia lirica o nella prosa d’arte il sentimento è irretito nella sua piena emozionalità. Lo scambio epistolare tra Bazlen e Montale dal 1925 al 1930 non dà adito a dubbi (11): Bazlen consiglia al amico, oltre i libri e le novelle di Svevo (attorno a cui attivano una riuscita campagna di stampa), la lettura di Joyce, per il quale Bazlen, insieme a Gillo Dorfles, approfondisce lo studio della lingua inglese, e di Rilke, che prova a mettere in contatto personale con Montale, oltreché la lettura di Le grand Meaulnes (1913) di Alain-Fournier, di Locus Solus (1914) o di Impressions d’Afrique (1910) di Raymond Roussel, di Antic Hay (1923) di Aldous Huxley, di Portrait of a Lady (1881) di Henry James, del ciclo narrativo Les Thibault di Roger Martin du Gard (iniziato nel 1922), di Anabase di Saint-John Perse (1924), non mancando illustri smarcamenti, come quello per Heartbreak’s House (1919) di G. B. Shaw o quello per Ash-Wednesday (1930) di Thomas Streams Eliot.
Per contro, in Bazlen, autentico editor già da giovane (12), il modo in cui il suo capitano di lungo corso scorge dal mare la costa della sua città è ancora pervaso da una lontana eco decadente, rielaborata però in strumento per convertire ogni compiacimento letterario in una certa qual ‘saggezza di vita’ che ha i tratti d’una Umwaldung junghiana, ed è orientato a ridurre tutto nei termini di un mondo giocattolo, lillipuziano, caricaturale, inteso bene da Manuela La Ferla quale indice di una dimensione in perenne divenire (già infondo nota a Novalis e ai Romantici). Tale orientamento non solo è diverso, ma è decisamente straniante, in senso anti-letterario, rispetto all’orientamento del Rilke delle Duineser Elegien e a quello stesso dei primi tre libri di Montale: “Il porto era all’inizio una sottile linea grigia, poi una vera città giocattolo – poi sempre più grande: la mia casa – una minuscola casetta giocattolo.” (13), ed è vissuto con una tale radicalità che, tra le varie testimonianze che di Bazlen si daranno prima e attorno alla pubblicazione dei suoi scritti – da quelle di Fabrizio Onofri ne Il manoscritto (1948) e di Carlo Levi ne L’orologio (1950) a quelle di Daniele Del Giudice in Lo stadio di Wimbledon e di Antonio Debenedetti in La fine di un addio (entrambi del 1984), e compresa quella sotto traccia dello stesso Montale nel suo I quadri in cantina in Farfalla di Dinard (1960) -, non suona per nulla impropria quella ‘lettera a Eusebius’ (Montale, appunto), apocrifa naturalmente, che farà scrivere Marco Ercolani a un Bazlen altrettanto immaginario, nel suo Lezioni di eresia (1996), ‘lettera’ intitolata Un caso clinico e in cui l’editore ‘nascosto’ – collaboratore delle maggiori case editrici del secondo Novecento italiano – prega il futuro premio Nobel di proteggerlo dalla smania montante di tirarlo in mezzo all’agone letterario (14). Lo stile di Bazlen risulta critico nei confronti dell’opera tout court e della sua inevitabile finitezza, allo stesso modo in cui lo sguardo d’Orfeo verso Euridice risulta trasversale rispetto all”intervista’ che un Ulisse vivo fa ad un Achille morto nel regno dell’ombra. Su questo paragone – incontro di critica e poetica, e di storia e anima – potrebbe dirsi bloccato il rapporto tra Montale e Bazlen, quasi fossero due novecenteschi Ulisse e Diomede. Entrambi intimamente accesi dai libri di Nietzsche, il primo intraprenderà un risoluto processo di ‘autoinfluenza’, come direbbe oggi Bloom, inseguendo in particolare Valery, mentre il secondo, per dirla con Hans Blumenberg (attento alle successive conclusioni epistemologiche, d’ascendenza austriaca, di un Lorenzen), vivrà davvero la cultura moderna come un perpetuo “sich schiffbauen mit den Resten des Schiffbruch“ (costruirsi un’imbarcazione con i resti del naufragio).
Questo ha senso nell’ascesa che porterà Montale a Primavera hitleriana, poesia parimenti petrarchesca e dantesca già nel ossimoro del titolo (15). Nel convergere d’invettiva storica e riscatto ideale – e nel distacco da Clizia, che emerge dal negativo del mondo – s’avverte l’eco di una freccia antifascista forse già scoccata il 6 febbraio 1926, giorno in cui Montale, già firmatario del manifesto antifascista di Croce, salutò Gobetti alla Stazione Principe, a Genova, in occasione della partenza, senza ritorno, dell’amico verso la Francia (riverberata nelle ultime poe-sie dell’edizione di Ossi del 1928), e che coglierà il suo centro il 9 maggio 1938, giorno in cui Hitler visiterà Firenze, trasfigurandosi in una gnosi dolorosa e apocalittica per l’addio di Irma Brandeis (Clizia, appunto) (16). Anche grazie a Bazlen, insomma, oltreché a Contini o Solmi, non fu solo possibile superare l’influenza dannunziana e scongiurare il rischio di voler “essere Blake-Rossetti” per scoprirsi Lipparini-Carducci (17), ma fu possibile ricomporre un conflitto costitutivo della poesia italiana tra purezze idealistiche e aperture storico-critiche. E, questo, pur protetto nell’ambito del ‘permanere nel particolare’ proprio dell’io lirico. Questo, di fatto, Montale precognizzava, in una lettera a Svevo del 1926: “Dei versi io ne farò ancora per qualche anno, perché è l’unica forma ch’io sento possibile per me. Non si meravigli che possa esistere un temperamento polarizzato nel senso della lirica e della critica letteraria: da Baudelaire a Eliot ed a Valèry; a quanti è toccata questa sorte? Eppoi con l’esperienza che ho io, tutta esclusivamente interna, che potrei dare nel campo narrativo? Sono un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo e tutto quello che potevo dare in fatto di grida mozze e sussulti, è tutto negli Ossi di Seppia!” (18). Queste parole, più ancora che tra Montale e Bazlen, sembrano segnare il passo tra Genova e Trieste. La relazione tra queste due città si configura come allegoria di un più vasto rapporto tra pulsione e riflessione, e tra vertigine e misura, tra metaforiche schegge di sublime e ironiche inibizioni metaletterarie, nel senso in cui la pulsione suppone nella riflessione un sapere inappropriabile, mentre la riflessione trova in sé inspiegabile il fatto che la pulsione rimanga, nonostante il suo vigore, all’oscuro di sé. Né altro potrebbe interessare, qui, nelle relazioni tra questi due uomini, così vicini e così diametralmente opposti. E questo è, in sintesi, l‘impasse nel rapporto ben più fertile di ogni pretesa conciliazione: Genova grida; Trieste – più saggia, o più vuota – non risponde.
“Anti-Ulisse” e le Regard d’Orphée
“Allora il ‘destino’, in quanto ‘apparire dell’esser sé dell’essente’, … è destinato a irretire anche ciò che è assolutamente al di là della rete e si configura come ‘mare’. … A questo punto, però, la parola ‘rete’ suona falsa perché l’irretire implica una sorta di resistenza dall’altra parte, da parte dell’irretito. … Quando è dio, il dio della teologia occidentale, che dice al tempo: ‘Tu non potrai sgarrare rispetto alla mia legislazione. Alla legislazione in cui io consisto, tu non potrai sgarrare’. Qui c’è l’irretimento.”
(E. Severino Identità della follia Rizzoli, Milano, 2007)
Il Capitano di lungo corso di Roberto Bazlen sembra dirsi programmaticamente un ‘ultimo romanzo’. Parimenti il suo personaggio-uomo, per dirla con Giacomo Debenedetti, non è affatto un epigono, come accade invece, direi, ne L’ultimo uomo di Franco Rella. L’indagine su Bazlen non si riduce all’esplorazione ennesima di un’opera non finita, ma intende ricostruire un punto di vista indipendente, straordinariamente informato, letterariamente dinamico, finanche dotato di capacità maieutiche, ma in modo paradossale, come lo potrebbe essere solo l’energia scaturita dalla massa assorbente di un buco nero in cui è esiziale smaterializzarsi. Il capitano si lascia avvolgere senza troppa irrequietezza da quelle contraddizioni, insite nella forma e nei contenuti del romanzo borghese, individuate a suo tempo, una volta per tutte, da György Lukács in Die Theorie des Romans (1915-1920) (1). Ma questo avviene attraverso ordini di rifrazione ultimativi, e in maniera così straordinariamente sedimentata da apparire, alla fine, ‘ossigenante’ sino alla dimenticanza di sé. La caratteristica “dissonanz der Romanform”, che – secondo Lukacs – “wegen dieser seiner scheinbaren Inhaltlichkeit ein vielleicht noch ausgesprocheneres und entschiedeneres Zusammenwirken von ethischen und ästhetischen Kräften erfordert, als es bei evident reinen Formproblemen der Fall ist“ (2), tenta, con Bazlen, l’approdo verso le spiagge, per dirla con linguaggio hegeliano, della piena coscienza di sé. E il frammentarsi di questo progetto lascia detto qualcosa a proposito di un più vasto naufragio. La sua riflessione tenta lo sfondo originario di una qualche base archetipica del romanzo, – come s’evince nella sezione Anti-Ulisse, interna a quelle Note senza testo che Adelphi ha pubblicato nell’edizione degli Scritti di Bazlen del 1984. E tale base è infondo misurabile a posteriori su prospettive enciclopediche vaste, come quella, ed è solo un esempio agli antipodi, del naufrago Roberto de la Grive ne L’isola del giorno prima di Umberto Eco (1994) (3), ma con una intenzione metaletteraria più vicina a quella del apologo The sea and its shore di Elizabeth Beshop (1984), inseguendo cioè, sul piano del grande stile o dell’anti-stile (equivalenti, in quanto riferiti a una totalità come spirito o storia), un’idea di sé del tutto stilizzata e terminale, perpetuamente procrastinata, e forse più intima a certuni anti-romanzi para-allegorici come il Murphy di Beckett (….), la cui portata s’espande a livelli così vasti da investire l’intima struttura stessa del romanzo, almeno dal Don Chisciotte in poi, e di cui non se ne vede l’intima Bildung, se non nel ribaltamento della sintesi tentata del Wilhelm Meister di Goethe o di quegli ‘attimi della morte’ in cui si dischiudono i sentieri della ‘vita viva’ di Guerra e pace di Tolstoj, la Bildung cioè di un qualche benché minimo – corrispondente e credibile – ultimo romanzo morto.
Il capitano di Bazlen non vuol essere nulla più che una caricatura dell’omerico Ulisse, quale allegoria di una millenaria schiera di viaggiatori di ritorno, abbruttiti da un’abuso narcisistico dell’Idea e della Storia. In questo senso, uno dei principali problemi del romanzo, prima di essere storico, è psicologico. E solo azzardando un esame dei rapporti che Bazlen intrattenne con la psicanalisi freudiana e la psicologia analitica junghiana potrebbe essere possibile mettere a fuoco le intenzioni di questa quasi spenta macro-allegoria. Dopo aver vissuto, giovanissimo, i primi entusiasmi per la psicanalisi, introdotta per la prima volta in Italia, a Trieste, dall’allievo di Freud e di Paul Federn, Edoardo Weiss – membro della Wiener Psychoanalytische Vereinung e fondatore, nel 1932, della Società Psicanalitica Italiana –, Bazlen s’orientò, in modo piuttosto isolato, verso, appunto, la psicologia analitica di Carl Gustav Jung. E, banalmente, ragioni e condizioni di un tale cambiamento di rotta potrebbero intuirsi connesse a quel febbrile entusiasmo alchimistico che traspare a più riprese dalle lettere editoriali e dagli appunti di Bazlen. La vicenda freudiana, le sue esperienze immediate e quelle dei suoi discendenti ‘secessionisti’, echeggiarono negli ambiti della creazione letteraria, e senza che se ne possano intuire distinzioni e intransigenze, col loro primo esordire oltre Vienna. L’ipotesi dell’inconscio, per quanto affrontata e sviscerata, rendeva gli intellettuali impazienti. Ci si sentiva ad ogni momento sul punto di svelare finalmente tutta la verità sull’uomo e sul suo vivere interiore. E si rischiava così di cadere ad ogni passo in sempre diversi gineprai, tra contraddizioni ed equivoci relativi agli sfondi culturali, non di rado abissali, di taluni termini in uso nei circoli psicoanalitici del tempo e alle trame eminentemente ‘duali’ e difficilmente traducibili instaurate tra paziente e analista (trame in cui la terapia concreta necessitava di ricondurli e rinchiuderli). È ingiusto negare che, in quel clima, lo scompiglio di letterati e artisti sapesse essere un buon compagno di viaggio per la psicanalisi, e talvolta sapesse anche anticipare intuitivamente e rispecchiare talune problematiche freudiane. In particolare, la sensibilità fin de siècle che riuscì in qualche modo a metabolizzare i traumi della prima guerra mondiale individuava una contraddizione proprio all’interno del fondamento del giudizio sullo stato di salute psichico dell’individuo; contraddizione, che aveva precise premesse storiche e uno sviluppo pressoché secolare, quelle stesse che costituiranno il nucleo fondamentale dell’indagine complessiva di Thomas Mann.
Il sintomo – questa in sintesi era la domanda – è sempre e comunque sintomo di malattia? Anche in Italia, non solo attraverso la mediazione della vitalistica prospettiva dannunziana, ma pure nell’ambito di una più aspra scrittura di uno Scipio Slataper, proruppe in quegli anni una febbricitante immagine della ‘salute’, che ne prevede, nei suoi rapporti sociali, l’apparenza nevrotica. Nell’eco di questa visione si forma e risuona quell’obiezione alle teorie freudiane che operò in molta cultura mitteleuropea e si protrasse sino ai giorni nostri attraverso gli scontri più diversi, ed importanti, uno tra tutti quello tra Artaud e Lacan, drammatizzanti in pieno ciò che già Nietzsche intese affermare nel 1882, riproponendo una nuova edizione de La nascita della tragedia dallo spirito della musica. “Eine Grundfrage ist – scriveva Nietzsche – das Verhältniss des Griechen zum Schmerz, sein Grad von Sensibilität, – blieb dies Verhältniss sich gleich? oder drehte es sich um? – jene Frage, ob wirklich sein immer stärkeres Verlangen nach Schönheit, nach Festen, Lustbarkeiten, neuen Culten, aus Mangel, aus Entbehrung, aus Melancholie, aus Schmerz erwachsen ist? Gesetzt nämlich, gerade dies wäre wahr – und Perikles (oder Thukydides) giebt es uns in der grossen Leichenrede zu verstehen -: woher müsste dann das entgegengesetzte Verlangen, das der Zeit nach früher hervortrat, stammen, das Verlangen nach dem Hässlichen, der gute strenge Wille des älteren Hellenen zum Pessimismus, zum tragischen Mythus, zum Bilde alles Furchtbaren, Bösen, Räthselhaften, Vernichtenden, Verhängnissvollen auf dem Grunde des Daseins, – woher müsste dann die Tragödie stammen? Vielleicht aus der Lust, aus der Kraft, aus überströmender Gesundheit, aus übergrosser Fülle? Und welche Bedeutung hat dann, physiologisch gefragt, jener Wahnsinn, aus dem die tragische wie die komische Kunst erwuchs, der dionysische Wahnsinn? Wie? Ist Wahnsinn vielleicht nicht nothwendig das Symptom der Entartung, des Niedergangs, der überspäten Cultur? Giebt es vielleicht – eine Frage für Irrenärzte – Neurosen der Gesundheit?”
- In virtù di una pressoché identica obiezione al concetto comune di salute mentale, … La coscienza di Zeno …
- Svevo proiettando paradossalmente la diagnosi …
- Eppure, nonostante tutto, … Svevo / Adorno – Svevo / Lacan
- Alla rimozione del concetto freudiano di inconscio la psicologia analitica di Jung …
- D’altra parte però, un’attenta lettura degli scritti di Bazlen …
- Se infatti Bazlen parla di trasformazione in senso junghiano …
- In generale è opportuno concludere …
- (Ferenczi)
- In quest’ottica … il percorso del Capitano di lungo corso …
- Poseidone – il nemico di Ulisse …
- (Groddeck)
- “Ulisse non basta più” …
- Così Bazlen approda …
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Am Meer (a margine di una qualche estetica musicale)
La possibilità di trarre spunti di carattere estetico dai quaderni e dalle lettere di Bazlen, ed in particolare dalle pagine che riguardano il romanzo, sembra non cedere al destino che lo vorrebbe scrittore di nessun libro, oltrepassando quell’equazione immediata tra quantità prodotta e buon esito, che tende a percorrere gli studi di presenze come Bazlen, che hanno indugiato tra gli interstizi della scrittura creativa e le note a pié di pagina dell’approfondimento critico. Basterebbe da sola l’immagine del mare e le molteplici declinazioni del suo tropo letterario, in questi appunti per un romanzo, a risvegliare il senso balluginante, tanto leggero quanto liberante, dell’ironia, quasi fosse, la sua verità, il prodotto, costantemente transeunte, del rapido sfolgorio delle onde, per una volta conciliabile con esperienze estetiche effettivamente lontane da Bazlen, come la musica. In un suo scritto intitolato Sguardi sul mare Valery descrive due sensazioni che, tra le altre, nascono “dalle onde e dalla mente” : “L’una, di fuggire, fuggire per fuggire, idea che genera uno strano impulso d’orizzonte, uno slancio verso il largo, una sorta di passione o di istinto cieco del partire. L’acre odore del mare, il vento salato che ci dà la sensazione di respirare la distesa, la confusione colorata e movimentata dei porti comunicano un’inquietudine meravigliosa. I poeti moderni, da Keats a Mallarmé, da Baudelaire a Rimbaud, abbondano di versi impazienti che stimolano l’essere, lo scuotono, come la brezza fresca, attraversando tutte le sue armature, sollecita la nave all’ancoraggio. L’altra idea è forse causa profonda della prima. Non si può voler fuggire che ciò che ricomincia. L’iterazione infinita, la ripetizione dura e ostinata, lo scontro monotono e la ripresa identica, delle onde del mareggio, che suonano senza tregua contro i confini del mare, ispirano all’anima – stanca di prevedere il loro irresistibile ritmo, la nozione del tutto assurda dell’eterno ritorno. Ma nel mondo delle idee l’assurdità non genera la potenza: l’impressione potente e insopportabile di una eterna ripresa si muta in desiderio furioso di rompere il ciclo sempre futuro, stimola una sete di schiuma sconosciuta, di tempo vergine, di avvenimenti variati all’infinito. …”.
La musica, in quanto ambito di linguaggi prevalentemente autosignificante (scarsamente dotata di diretti rapporti con referenti che non siano ancora in qualche modo variamente sintattici) è l’arte che più si avvicina all’iscriversi di questo delirio d’onnipotenza in tutta la sua latente connivenza con la morte. Anch’essa, come il mare e come le fissazioni irrigidite dell’immagine della madre, può diventare il luogo in cui il soggetto cade in inganno circa i propri limiti, sino a produrre un espandersi del io a spazi incommensurabili, in un misconoscimento del limite pericolosamente prossimo al reale, in cui la spinta al sublime potrebbe perdere ogni tratto metaforico e vivificante, alleandosi con corrosiva letteralità a quel fantasma psicanalitico distruttivo – da Freud per altro solo abbozzato – che si suole indicare quando si parla di ‘pulsione di morte’. Di questa consapevolezza si nutre l’indagine psicologica, sociologica e finanche storica che non intenda ignorare ciò che nella sfera dell’immaginario potrebbe, ad uno strappo, farsi reale pretesa di potere, reale affermazione d’immortalità. Perciò qui val forse la pena di soffermarsi ancora presso queste interstiziali suggestioni letterarie, parlando di musica.
1 Di questa consapevolezza
2. L’Ulisse di Luigi Dallapiccola …
3. La dialettica tra perdita dei contorni …
4. Mentre per Schoenberg …
5. Almeno con la costruzione tonale della musica …
6. Il fallimento storico di quelli che Maderna …
7. L’esperienza di questi musicisti. … “per scoprire che in altri lidi lontani ancora esso ci segue con l’aura del suo sorriso”
[…]
Note
Genova e Trieste
(1) Francesco Luperini, in Storia di Montale (Laterza, Roma Bari 1986, pag. 36 e segg.), affronta il tema del ‘sentimento oceanico’ come lo propone Romain Roland a Freud (S. Freud Opere 1924-1929, vol. X a cura di Musatti, Boringhieri, Torino, 1978, pag. 561), evidenziandone l’interpretazione freudiana per cui il sentimento oceanico può intendersi come traccia d’una dimensione infantile di maggiore comunione dell’io con l’ambiente destinata a ridursi drasticamente con l’età matura. L’interpretazione freudiana del sentimento oceanico, secondo Luperini, concerne la raccolta Mediterraneo di Montale che, dell’elaborazione della separazione da quel sentimento (vissuto ancora in termini di sublime coinvolgimento, ad esempio, nell’Alcione di D’Annunzio) ne diventa in qualche modo il ‘romanzo’, riconducendo a età matura l’incanto immediato, possibilmente senza perderne a tratti l’élan vital. L’immagine del mare come immagine grandiosa d’identità, e l’ulteriore appello all’oceano nelle sue varie declinazioni, è per altro presente in molta parte della letteratura e della cultura francese dell’Ottocento, da Hugo a Lautéamont, da Verlaine e dai maudits a Michelet; e, questo, riguarda anche, per molti versi, il sentimento del mare in Campana. Per tornare, con uno sguardo più approfondito, agli sviluppi espliciti del tema del ‘sentimento oceanico’ in Freud si legga: Elvio Facchinelli La mente estatica Adelphi, Milano 1987. Per quanto riguarda, invece, il riferimento a Carmelo Bene posso dire che nasce dal personale ricordo di una lettura pubblica di Bene tenuta a Firenze, credo nel 1983; intendo approfondire la ricerca di documentazione audio di queste o di simili ‘letture’.
(2) Roberto Calasso, in La folie Baudelaire (Adelphi, Milano 2008, pag. 332), seguendo i rapporti tra Baudelaire e Laforgue, vedrà al centro della poetica di Baudelaire un destino specifico verso quella che Roberto Bazlen chiamò, con felice neologismo, la ‘primavoltità’. Questo concetto, per altro, ed è cosa rilevante per la ricezione di Nietzsche in Italia, è presente già anche in Nietzsche DfW III, 248: “Come può essere importante un libro che non sappia neppure condurci oltre tutti i libri?”. In questo senso, si dovrebbe fare un più serio confronto con la ricezione che di Nietzsche ne dà Adorno nell’aforisma 133 dei Minima Moralia (Contributo alla storia dello spirito): il che vuol dire cercare di comprendere quanto Bazlen, Colli e Montanari fossero, o no, liberi dalle critiche di Adorno all’editoria nietzsciana e quanto Adorno potesse essere a sua volta criticato da Bazlen. Per quanto riguarda i temi baudeleriani del voyage e del abime si può sostenere che siano rielaborati e convertiti da Montale, in particolare nella poesia Arsenio di Ossi di seppia, in uno squassante vento di immobilità metafisica, prossimo al paesaggio dantesco del V canto de L’Inferno. Altre tracce se ne possono ritrovare in molti passi dei libri successivi, sino a Primavera hitleriana. Analoghe suggestioni baudelariane, variamente contemporanee, arrivano nel Benjamin de Baudelaire e Parigi, in Angelus Novus Einaudi, Torino 1962, e nell’Adorno di Minima Moralia, aforisma 150 Edizione straordinaria (T. W. Adorno Minima Moralia Einaudi, Torino 2006). Seguendo le prospettive di Harold Bloom, potremmo ricondurre il tropo letterario del sentimento oceanico entro il gioco di influenze che collega Hugo a Baudelaire, Rimbaud e Valery, e quindi potremmo riunire questo ramo maestro della letteratura francese alle elaborazioni in lingua inglese del demonismo miltoniano e quindi shakespeariano. E, se il passaggio a ritroso da Shakespeare a Dante potrebbe risultare finanche una forzatura, forse, per la letteratura inglese e per quella francese prese per sé stesse, non lo risulta per la letteratura italiana che con queste letterature ha sempre dato e preso scambievolmente all’interno di una medesima elaborazione letteraria.
(3) “Hier aber findest du, um jede Ecke biegend, einen Menschen für sich, der das Meer, das Abenteuer und den Orient kennt, einen Menschen, welcher dem Gesetze und dem Nachbar wie einer Art von Langerweile abhold ist und der alles schon Begründete, Alte mit neidischen Blicken misst: er möchte, mit einer wundervollen Verschmitztheit der Phantasie, dies Alles mindestens im Gedanken noch einmal neu gründen, seine Hand darauf —, seinen Sinn hineinlegen — sei es auch nur für den Augenblick eines sonnigen Nachmittags, wo seine unersättliche und melancholische Seele einmal Sattheit fühlt, und seinem Auge nur Eigenes und nichts Fremdes mehr sich zeigen darf “ F. Nietzsche Die frohliche Wissenschaft, trad. it. La gaia scienza (Colli, Montanari) Adelphi, Milano 1979. Che tale passo di Nietzsche fosse noto a Campana si evince dagli studi di Marco Antonio Bazzocchi Campana, Nietzsche e la puttana sacra Manni Editore, S. Cesario di Lecce, 2003. Circa i rapporti tra Nietzsche e Campana si veda anche: Cesare Galimberti Un frammento di Dino Campana su Wagner (e Nietzsche) in A.A.A. Vivere senza paura. Scritti per Mauro Bortolotto EDT, Torino, 2007; Gemma Adesso Il poeta muto in Caputo, Annalisa, Bracco, Michele (a cura di), Nietzsche e la poesia Stilo, Bari, 2012. Per altro, lo stesso Eugenio Montale non manca di evidenziare la forte influenza proprio di Die froliche Wissenschaft (DfW) in Campana nel suo Sulla poesia di Campana del 1942 (contenuto in Sulla poesia Mondadori, Milano, 1976). Dall’idea di infinito in DfW che si correla alla visione di Genova proposta da Nietzsche sullo stesso testo cfr.: III, 124, 253 e dalla citazione (già qui citata a nota 2) in testa a questo mio primo appunto su Genova e Trieste, fondamentale per l’intera strategia editoriale di Bazlen e per il suo concetto di ‘primavoltità’, se ne evince un filone montaliano d’indiretta influenza nietzschena e un filone bazleniano, diverso da quello montaliano, connesso anche col progetto editoriale di pubblicare in italiano tutta l’opera di Niezsche; entrambi, legati in particolare a DfW. Lo studio dell’influenza di Niezsche su Montale e Bazlen varrebbe una ricerca passo per passo.
(4) Il testo di primo riferimento è, certamente: A. Ara – C. Magris Trieste, un identità di frontiera Einaudi, Torino 1982. Ma per esplorare a fondo il mondo letterario da cui proviene Roberto Bazlen, forse è ancora più importante: Magris, C. L’anello di Clarisse Einaudi, Torino 1984, 1999, imperniato, a partire dal titolo, sul rapporto tra L’uomo senza qualità di Musil, romanzo di riferimento capitale per Bazlen, come è documentato dalle sue note editoriali, e l’opera di Nietzsche.
(5) R. Bazlen Intervista su Trieste da Note senza testo in Scritti Adelphi, Milano 1984. M. Cacciari, in Un’oscura via di città vecchia (interno a Dallo Steinhof Adelphi, Milano 2005(2)), individuando proprio in Bazlen il prototipo stesso dell’Ersucher mitteleuropeo e altenberghiano, evidenzia quanto la cultura triestina non si possa affatto paragonare a quella di un crogiuolo, preferendo parlare, appunto, seguendo le indicazioni di Bazlen, di un crocevia: “Nel crocevia le diverse strade non si affatto in una sola, le possibili direzioni rimangono aperte davanti. Da qui l’impulso a conoscerle e percorrerle tutte, una inquietudine inesausta, che afferra chi nasce nel crocevia e che celebra in Theodor Däubler il proprio epos.” (…) In particolare, l’ottica di Bazlen è quella di una nuova critica che si rapporti ai testi come avrebbe potuto rapportarsi Kraus o lo stesso R. Bazlen Quaderni.
(6) Circa i rapporti tra Eugenio Montale e Roberto Bazlen, fondamentali per la costruzione e lo stile dei primi tre libri di Montale, ma non privi di differenziazioni e difficoltà si veda: M. La Ferla Diritto al silenzio Sellerio, Palermo 1985, in particolare i capitoli Per una diacronia indiziaria e Metempsicosi di un’immagine.
(7) Si leggano ad esempio i seguenti versi da Noi non sappiamo quale sortiremo, quarta di Mediterraneo ( Montale Ossi di Seppia Mondadori, Milano 1973 pag. 81): “… il nostro cammino/ a non tócche radure ci addurrà/ dove mormori eterna/ l’acqua di giovinezza;/ o sarà forse un discendere/ fino al vallo estremo,/ nel buio, perso il ricordo del mattino”: Montale Ossi di Seppia Mondadori, Milano 1973 pag. 81. Gioanola … . Luperini idem … Questi temi sono percorsi pressoché per intero, e nel loro diretto contesto poetico-letterario d’elezione, da: Angiola Ferraris Montale e gli ‘Ossi di seppia’ Una lettura. Donzelli Editore, Roma 2000.
(8) E. La Ferla Diritto al silenzio Sellerio, Palermo, 1985. Ma, soprattutto, per l’aspetto di nuova critica in Bazlen: M. Cacciari Un’oscura via di città vecchia, in Dallo Steinhof Adephi, Milano 2005(2). Circa il lavoro concreto di Bazlen e Montale alla ricerca di un nuovo italiano ‘slatinizzato’: R. Bazlen Lettere a Eugenio Montale … , in Scritti Adelphi, Milano 1985.
(9) [riportare il testo della poesia e analizzare con un paragone con la seguente pagina di Kierkegaard] … simile nei contenuti al modo in cui Soren Kierkegaard, in un’ampia pagina del suo Diario, ritrova un suo rapporto col mare come limite e recupero di un sé ancestrale: “Quando dall’Albergo si passa il ponte Nero (detto così perché qui, in altri tempi, s’era arrestata la peste) e si cammina per i campi brulli che si stendono lungo la spiaggia, dopo un quarto di miglio verso nord si arriva ad un rialzo dominante, cioè al Gilbjerg. Quest’angolo è stato sempre fra i miei preferiti. E quando io mi trovavo lì in una sera tranquilla, quando il mare con una gravità calma ma profonda intonava il suo canto, quando l’occhio non si imbatteva nel più tenue velo sull’immensa superficie ed il mare non aveva limiti che il cielo ed il cielo il mare, quando nel retroterra l’attività incessante della vita s’andava spegnendo e gli uccelli cantavano sul vespero la loro preghiera … spesso vedevo sorgere dalle tombe e venirmi incontro i miei cari morti, o meglio mi sembrava che morti non fossero più. In mezzo a loro mi trovavo così bene: un vero riposo fra le loro braccia, come se mi sentissi anch’io senza corpo e mi librassi con essi in un etere superiore. Ed ecco che il grido rauco del gabbiano mi scuoteva ricordandomi che ero solo; e mentre tutto svaniva dai miei occhi ed il cuore si faceva gonfio di malinconia, tornavo a mescolarmi al brusio del mondo senza tuttavia obliare quei momenti di felicità. … Mentre rimanevo così solo e abbandonato e l’impeto del mare e la violenza delle onde mi ricordavano il mio nulla, e d’altra parte il volo sicuro degli uccelli mi faceva venire in mente la parola di Cristo che ‘neppure un passero cade in terra senza la volontà del Padre Celeste (Matteo 10, 29): io provavo insieme la mia grandezza e la mia piccolezza; e queste due grandi potenze, l’orgoglio e l’umiltà, alla fine si fondevano in me armoniosamente.” S. Kierkegaard Diario … [approfondire conoscenze del giovane Montale circa Kierkegaard e l’esistenzialismo contemporaneo, oltreché tutta la vicenda editoriale e critica della traduzione italiana di Kierkegaard, tra l’altro nota a Bazlen].
(10) R. Bazlen Lettere a Montale, in op. cit. pag. … . Riferimenti di Bazlen a: Strindberg () Ibsen (); Flaubert (); Checov (); Wilde (); Proust (); Musil (); Kafka (); Beckettiana (); Cervantes (); Shakespeare ().
(11) R. Bazlen Lettere a Montale in op. cit pag. …
(12) Valeria Riboli Roberto Bazlen editore nascosto Fondazione Olivetti Ivrea-Roma 2013.
(13) R. Bazlen op. cit. ; M. La Ferla op. cit. pag. 110. [approfondire il ponte teso da La Ferla tra Novalis e Musil, per illustrare questo aspetto di Bazlen]
(14) M. Ercolani Lezioni di eresia Graphos Genova 1996. Per una ricostruzione degli scritti variamente riguardanti Bazlen prima e dopo la pubblicazione dei suoi frammenti, si veda E. La Ferla op. cit., in particolare il cap. Metempsicosi di un’immagine.
(15) H. Bloom Genius: A Mosaic of One Hundred Exemplary Minds H. Bloom, 2002, trad. it. Il Genio Rizzoli, Milano 2002. Cap. IX. Yesod. [cita parti salienti del testo]. Si potrebbe notare come quella che Cacciari chiama “nuova critica”, a poposito di Bazlen, differisca, in qualche modo, da quella di Bloom, perché impegnata esclusivamente in un esercizio maieutico del valore letterario, che non coincide del tutto e pienamente con il lavoro di riconoscimento dell’influenza che agisce sul ‘genio’ e che non sembra scegliere, nemmeno provocatoriamente tra storia e biografia.
(16) [Approfondisci le vicende storiche e private della morte di Gobetti e della relazione con la Brandeis] Questa ‘freccia’ è poi sottesa e comune all’articolo di Bazlen sul nazionalismo, per ‘Comunità’ del 1947, riportato da E. La Ferla op. cit. pagg. 184-185. [le poesie di Montale che potrebbero dirsi portatrici di questa ferita sono: analisi].
(17) E. Montale Lettere a Bobi Bazlen in Sulla poesia Mondadori, Milano 1976. Si veda in particolare la lettera del 1 maggio 1939, relativa alla poesia Elegia a Pico Farnese: “Non so fino a che punto la diversa percezione di certe nuances sia dovuta a miei difetti obiettivi o a un tuo fisiologicamente diverso orecchio. Mi spiego? Non so fino a che punto noi sentiamo allo stesso modo l’attuale valore del mio impasto verbale, non so fino a che punto tu senta quello che c’è di necessario e quello che ci può essere di arbitrario. … Credi che eliminando i bossi spartiti (che a Pico esistono nel giardino di Tom) otterrei una riduzione dell’effetto deleterio che mi segnali? Rispondi con precisione su questo punto. Io qui volevo essere Blake-Rossetti, non Liparini-Carducci.” Per altro, già in una lettera del 26, 12, 1926 Bazlen diceva: “Le tue liriche. Mi sono piaciute moltissimo, e mi sembrano (restando pur sempre in quella linea) molto migliori degli “Ossi”. Il loro limite: l’impossibilità di uno slatinizzamento della parola italiana. Hai fatto (con Campana e qua e là D’Annunzio) il massimo che si possa fare à ce but: non mi basta.” Il riferimento è alle poesie Morti e Incontro, poi inserite nella III sezione di Meriggi e ombre, interne all’edizione del 1927 di Ossi di Seppia.
(18) Montale, Eugenio – Svevo, Italo Lettere con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di G. Zampa, De Donato, Bari 1966. Questi temi sono affrontati anche nel capitolo sul sodalizio tra Bazlen e Montale di Valeria Riboli, Roberto Bazlen, editore nascosto Fondazione Adriano Olivetti, Ivrea 2013 pag. 18 e segg.
Anti-Ulisse
(1)
[E. Facchinelli]
Am Meer (1)
…
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Tolstoi, …
Whitman, Walt Foglie d’erba …
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Zuccarino, Giuseppe Critica e commento. Bejamin, Foucault, Deridda Graphos Genova 2000.
§
APPENDICE
Inserisco in appendice appunti e aforismi che compendino il lavoro implicato dalla riscrittura di Mare interno e dalla costruzione delle stesse note. Alcuni di questi appunti potranno sopravvivere alla chiusura del testo, la maggior parte no.
I
Ritornare attentamente sui passaggi di Freud e di Roland sul sentimento oceanico.
L’immagine della città di Genova vista come una mano aggrappata ai monti della Liguria trova una qualche coincidenza con l’immagine che Montale propone in Le Cinque Terre, prima prosa di Fuori di Casa, in cui ipotizza un “poetico flaneur di spiagge” che “voglia inclinare il bordo del suo cutter sul filo d’orizzonte che congiunge la punta Monesteroli al capo del Mesco” in modo da “vedere tutte insieme entro un arco incantevole di rocce e di cielo le Cinque Terre”. Forse il ‘naufrago’ non è agganciato solo con una mano ma con due; una, la destra, sulle alture della città, l’altra, la sinistra, più a levante, sulle Cinque Terre. Ogni dito della mano, su un paese: Monterosso, il pollice; Vernazza, l’indice; Corniglia, il medio, più lungo, e quindi l’unico che non si aggancia direttamente alla costa; Manarola, l’anulare; Riomaggiore, il mignolo.
Gli scrittori classici che parlano delle Cinque Terre: Dante (Purgatorio), Petrarca (Africa), Boccaccio (Decameron), Sacchetti (Trecentonovelle), Cervantes (Novelas Ejemplares), D’Annunzio (Faville del Maglio), Montale (Antico, La casa dei Doganieri, ecc.).
Martin Scorzese: The Wolf of Wall Street.
Ricerca audio e audiovideo di Bene, e sulle letture di Bene a Firenze tra il 1983 e il 1985.
Rassegna approfondita di passi da Hugo, Baudelaire, i poètes maudis di Verlaine e Rimbaud, attinenti al sentimento oceanico e ai suoi lati in ombra . Un testo utile (verificare quanto) per questo percorso potrebbe essere quello sulla psicanalisi delle acque di Bachlard.
Conforta la mappatura attorno al tropo genovese di Campana con l’aiuto di Genio di Bloom.
Shelley, Keats e Coleridge nel mito romantico della Liguria.
Incidenze dantesce, goethiane, leopardiane, whitmaniane, mellvilliane, futuriste in Campana.
Rapporti tra Campana e Montale.
Rapporti tra il sentimento oceanico in Hugo e in Lautéamont.
Paragoni tra tre follie-chiave: Dino Campana, Vincent Van Gogh, Antonin Artaud.
Riporto qui il testo di Genua di Nietzsche da Die fröliche Wissenschaft: “Genua. — Ich habe mir diese Stadt, ihre Landhäuser und Lustgärten und den weiten Umkreis ihrer bewohnten Höhen und Hänge eine gute Weile angesehen; endlich muss ich sagen: ich sehe Gesichter aus vergangenen Geschlechtern, — diese Gegend ist mit den Abbildern kühner und selbstherrlicher Menschen übersäet. Sie haben gelebt und haben fortleben wollen — das sagen sie mir mit ihren Häusern, gebaut und geschmückt für Jahrhunderte und nicht für die flüchtige Stunde: sie waren dem Leben gut, so böse sie oft gegen sich gewesen sein mögen. Ich sehe immer den Bauenden, wie er mit seinen Blicken auf allem fern und nah um ihn her Gebauten ruht und ebenso auf Stadt, Meer und Gebirgslinien, wie er mit diesem Blick Gewalt und Eroberung ausübt. Alles dies will er seinem Plane einfügen und zuletzt zu seinem Eigentum machen, dadurch dass es ein Stück desselben wird. Diese ganze Gegend ist mit dieser prachtvollen unersättlichen Selbstsucht der Besitz- und Beutelust überwachsen; und wie diese Menschen in der Ferne keine Grenze anerkannten und in ihrem Durste nach Neuem eine neue Welt neben die alte hinstellten, so empörte sich auch in der Heimat immer noch jeder gegen jeden und erfand eine Weise, seine Überlegenheit auszudrücken und zwischen sich und seinen Nachbar seine persönliche Unendlichkeit dazwischen zu legen. Jeder eroberte sich seine Heimat noch einmal für sich, indem er sie mit seinen architektonischen Gedanken überwältigte und gleichsam zur Augenweide seines Hauses umschuf. Im Norden imponiert das Gesetz und die allgemeine Lust an Gesetzlichkeit und Gehorsam, wenn man die Bauweise der Städte ansieht: man errät dabei jenes innerliche Sich-Gleichsetzen, Sich-Einordnen, welches die Seele aller Bauenden beherrscht haben muss. Hier aber findest du, um jede Ecke biegend, einen Menschen für sich, der das Meer, das Abenteuer und den Orient kennt, einen Menschen, welcher dem Gesetze und dem Nachbar wie einer Art von Langerweile abhold ist und der alles schon Begründete, Alte mit neidischen Blicken misst: er möchte, mit einer wundervollen Verschmitztheit der Phantasie, dies Alles mindestens im Gedanken noch einmal neu gründen, seine Hand darauf —, seinen Sinn hineinlegen — sei es auch nur für den Augenblick eines sonnigen Nachmittags, wo seine unersättliche und melancholische Seele einmal Sattheit fühlt, und seinem Auge nur Eigenes und nichts Fremdes mehr sich zeigen darf”.
Approfondisci l’idea di Cacciari citata in nota 5.
Claudio Magris L’anello di Clarisse; soprattutto il primo capitolo: Grande stile e totalità: necessario per capire Bazlen. Ma forse anche utile per capire l’altro fronte, quello di Montale, magari attraverso una rielaborazione calibrata della contrapposizione che Magris ci tiene a evidenziare tra cultura di discendenza francese e cultura di discendenza mitteleuropea. Alla base, direi, il modo in cui certa cultura francese passa dal riferimento all’infinità della totalità all’infinità dell’infinitesimo; passaggio, già evidente nella migliore poesia simbolista, il cui influsso naturalmente arriva sino a Campana e Montale.
La situazione oggi non permette che accessi relativi, tanto al infinito quanto all’infinitesimo, ponendo il problema della finità del questo minimo, che quindi non potrà esimersi dal rivendicare la sua eccedenza violentata, per certi aspetti, e la sua generalità incidente, per altri aspetti. Come? Ecco un problema per questo appunto.
Cercare Zellini Numero e Logos.
Approfondire il concetto di stile.
Prendere sul serio, anche proprio in sede musicale, le riflessioni di Magris sul versante del significante e del suono, rispetto al senso, contenute in Grande stile e totalità. Porle a confronto con il problema, credo ancora paerto, tra semiotici e pitagorici della musica (per questo, è importante il confronto con l’ultimo lavoro di Zellini).
Lukács Teoria del Romanzo 1914 1915 II.4 ‘La forma interna del romanzo’
…
Jede Kunstform ist durch die metaphysische Lebensdissonanz definiert, die sie als Grundlage einer in sich vollendeten Totalität bejaht und gestaltet; der Stimmungscharakter der hieraus entspringenden Welt, die Atmosphäre der Menschen und Begebenheiten ist durch die Gefahr bestimmt, die, die Form bedrohend, aus der nicht absolut aufgelösten Dissonanz entsteigt. Die Dissonanz der Romanform, das Nicht-eingehen-Wollen der Sinnesimmanenz in das empirische Leben gibt ein Formproblem auf, dessen formeller Charakter viel verdeckter ist, als der anderer Kunstformen, das wegen dieser seiner scheinbaren Inhaltlichkeit ein vielleicht noch ausgesprocheneres und entschiedeneres Zusammenwirken von ethischen und ästhetischen Kräften erfordert, als es bei evident reinen Formproblemen der Fall ist. Der Roman ist die Form der gereiften Männlichkeit im Gegensatz zur normativen Kindlichkeit der Epopöe; die lebensseitige Form des Dramas steht jenseits selbst der – als apriorische Kategorien, als normative Stadien gefaßten – Lebensaltern. Der Roman ist die Form der gereiften Männlichkeit; das bedeutet, daß das Abschließen seiner Welt objektiv gesehen etwas Unvollkommenes, 64subjektiv erlebt eine Resignation ist. Die Gefahr, von der diese Gestaltung bedingt ist, ist deshalb eine doppelte: es ist die Gefahr da, daß entweder die Brüchigkeit der Welt kraß und die formgeforderte Sinnesimmanenz aufhebend zutage tritt und die Resignation in quälende Trostlosigkeit umschlägt, oder daß die allzu starke Sehnsucht, die Dissonanz aufgelöst, bejaht und in der Form geborgen zu wissen, zu einem voreiligen Schließen verführt, das die Form in disparater Heterogenität zergehen läßt, weil die Brüchigkeit nur oberflächlich verdeckt, aber nicht aufgehoben werden kann und so die schwächlichen Bindungen zerbrechend als unverarbeiteter Rohstoff sichtbar werden muß. In beiden Fällen aber bleibt das Gebilde abstrakt: das Formwerden der abstrakten Grundlage des Romans ist die Folge des Selbstdurchschauens der Abstraktion; die formgeforderte Immanenz des Sinnes entsteht gerade aus dem rücksichtslosen Zu-Ende-Gehen im Aufdecken ihrer Abwesenheit.
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Nietzsche Die Geburg des Tragoedie: …
Ja, was ist dionysisch? – In diesem Buche steht eine Antwort darauf, – ein “Wissender” redet da, der Eingeweihte und Jünger seines Gottes. Vielleicht würde ich jetzt vorsichtiger und weniger beredt von einer so schweren psychologischen Frage reden, wie sie der Ursprung der Tragödie bei den Griechen ist. Eine Grundfrage ist das Verhältniss des Griechen zum Schmerz, sein Grad von Sensibilität, – blieb dies Verhältniss sich gleich? oder drehte es sich um? – jene Frage, ob wirklich sein immer stärkeres Verlangen nach Schönheit, nach Festen, Lustbarkeiten, neuen Culten, aus Mangel, aus Entbehrung, aus Melancholie, aus Schmerz erwachsen ist? Gesetzt nämlich, gerade dies wäre wahr – und Perikles (oder Thukydides) giebt es uns in der grossen Leichenrede zu verstehen -: woher müsste dann das entgegengesetzte Verlangen, das der Zeit nach früher hervortrat, stammen, das Verlangen nach dem Hässlichen, der gute strenge Wille des älteren Hellenen zum Pessimismus, zum tragischen Mythus, zum Bilde alles Furchtbaren, Bösen, Räthselhaften, Vernichtenden, Verhängnissvollen auf dem Grunde des Daseins, – woher müsste dann die Tragödie stammen? Vielleicht aus der Lust, aus der Kraft, aus überströmender Gesundheit, aus übergrosser Fülle? Und welche Bedeutung hat dann, physiologisch gefragt, jener Wahnsinn, aus dem die tragische wie die komische Kunst erwuchs, der dionysische Wahnsinn? Wie? Ist Wahnsinn vielleicht nicht nothwendig das Symptom der Entartung, des Niedergangs, der überspäten Cultur? Giebt es vielleicht – eine Frage für Irrenärzte – Neurosen der Gesundheit? der Volks-Jugend und -Jugendlichkeit? Worauf weist jene Synthesis von Gott und Bock im Satyr? Aus welchem Selbsterlebniss, auf welchen Drang hin musste sich der Grieche den dionysischen Schwärmer und Urmenschen als Satyr denken? Und was den Ursprung des tragischen Chors betrifft: gab es in jenen Jahrhunderten, wo der griechische Leib blühte, die griechische Seele von Leben überschäumte, vielleicht endemische Entzückungen? Visionen und Hallucinationen, welche sich ganzen Gemeinden, ganzen Cultversammlungen mittheilten? Wie? wenn die Griechen, gerade im Reichthum ihrer Jugend, den Willen zum Tragischen hatten und Pessimisten waren? wenn es gerade der Wahnsinn war, um ein Wort Plato’s zu gebrauchen, der die grössten Segnungen über Hellas gebracht hat? Und wenn, andererseits und umgekehrt, die Griechen gerade in den Zeiten ihrer Auflösung und Schwäche, immer optimistischer, oberflächlicher, schauspielerischer, auch nach Logik und Logisirung der Welt brünstiger, also zugleich “heiterer” und “wissenschaftlicher” wurden? Wie? könnte vielleicht, allen “modernen Ideen” und Vorurtheilen des demokratischen Geschmacks zum Trotz, der Sieg des Optimismus, die vorherrschend gewordene Vernünftigkeit, der praktische und theoretische Utilitarismus, gleich der Demokratie selbst, mit der er gleichzeitig ist, – ein Symptom der absinkenden Kraft, des nahenden Alters, der physiologischen Ermüdung sein? Und gerade nicht – der Pessimismus? War Epikur ein Optimist – gerade als Leidender? – – Man sieht, es ist ein ganzes Bündel schwerer Fragen, mit dem sich dieses Buch belastet hat, – fügen wir seine schwerste Frage noch hinzu! Was bedeutet, unter der Optik des Lebens gesehn, – die Moral?
Francesco Denini