Proseguo qui un libero dialogo epistolare attorno alla musica iniziato con Marco Ecolani, sul suo spazio di scrittura in rete (si cerchi sul web Marco Ercolani: Scritture e su ‘cerca’ si cerchi Denini Ercolani), in modo volutamente privo di un fine preciso, per il piacere di aiutarci reciprocamente ad ascoltare musica.
Francesco Denini
Debussy, o dell’evento
Penso al libro che Mario Bortolotto ha dedicato al Lied. Quel suo cogliere nell’apparentemente immediato e irripetibile scaturire di parola e musica (e scaturire qui non è coincidere) la fragranza del Lied di Schubert. Unico momento accostabile –Bortolotto insegna – sarà il Lied di Hugo Wolf. In mezzo: la cultura Biedermeier, un ripiegamento del Romanticismo a cui è nettamente inadeguato ridurre Schubert. E, molto dopo, la dissoluzione in Alban Berg o l’assunzione al cielo delle idee in Anton Webern, che, insieme, direi, sembrano ribadire quell’essenziale bipolarità 0/1 che provavo ad evocare nelle lettere precedenti. Il tempo sembra dissolversi nella madrepora d’un tutto/nulla. Forse l‘essere parmenideo si rispecchia nel nulla di Gorgia, come il soggetto del Lied Der Doppelgänger di Schubert, su testo di Heine, si rispecchia nel vuoto derisorio di un accordo che suona totalmente ‘altro’ e perturbante (battuta 41, un appoggio dissonante sull’ultima parola del verso: Der Mond zeigt mir meine eigne Gestalt)?
L’inizio sembra essere sempre davvero il ‘dramma dell’inizio‘, la tragedia dell’ascolto. Vorrei rivedere col tuo aiuto un passo del saggio di Holderlin Sul Tragico (Über des Tragische) dove si parla dell’evento dello 0. Ammutolire, chiudere gli occhi, abbandonarsi all’entropia, come in Berg. Ammutolire farsi essenziale, affidarsi all’Idea, come in Webern. Ma, ancor meglio, questo incontro fisico con il nulla, il ‘senza-testa‘ della Dickinson, che tu puntualmente ritrovi in Schubert. Sono portato a pensare che sia un evento del permanere nell’inizio.
Schubert contempla l’inizio come in Vita di un perdigiorno (Aus del Leben von des Marmorbild) di von Eichedorff il protagonista incontra immediatamente la natura, girovagando col suo violino, gioisce dell’alba, dell’Italia, e sogna di cantare con le allodole. Come in fondo capita a Bill Evans in Peace Piece: sono momenti in cui il viaggio non permette di distinguere il costruirsi di un’esperienza e il fuggire nella rimozione. Sospese le due cose, si può incontrare lo scaturire dell’evento, il suo essere libero e figlio ‘degenere’ di tutto e nulla, di uno e zero: il surfista sa del cadere dell’onda tanto quanto della sua potenza che gli permette di cavalcarla, il suo viaggio è quell’incanto immediato, quell’istantanea presa nel avvenire di un tempo.
Debussy cavalcherà quell’onda muovendo per ripetizioni e scarti melodie di accordi. Rimanere nell’onda dell’evento non sarà più un incontro immediato con l’inizio, ma un muoversi nell’eco dell’evento, costruire esperienza cercando di non tradire la memoria del suo ‘fuori’. Perché l’inizio non è che un ‘venir fuori’, uno ‘scaturire’, un ‘tagliarsi fuori’ ed essere ‘tagliato fuori’, senza il quale si è nella ‘ripetizione’. In Schubert la disperazione non è assente. Debussy sembra non temerla, con un coraggio prossimo a quello di Satie. Conserva un minimo di testa, che in poesia è residuo di parola, in musica quel niente di costruzione che è il muoversi per gradi e sostituzioni, un mondo che non intenda più essere il mondo, ma permanga nell’eco del evento.
Ernesto Napolitano Debussy, la bellezza e il Novecento EDT 2015.
Mario Borlotto Introduzione al Lied romantico Adelphi, Milano1984.
Massimo Cacciari Dell’inizio Adelphi, Milano 1990.
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Marco Ercolani
Hölderlin e la musica
Poiché mi inviti a ripercorrere Sul tragico di Hölderlin ti citerò alcune frasi da quel saggio: «Se ciò che sussiste deve essere sentito e viene sentito nella sua dissoluzione, bisogna anche che quell’inesausto e inesauribile delle relazioni e delle forze e anche quella – la dissoluzione – siano sentiti più mediante questa – la unificazione – che all’inverso, giacché dal niente non nasce niente, e questo vuol dire, inteso gradualmente, che ciò che va verso la negazione – in quanto esce dalla realtà effettuale e non è ancora un possibile – non può agire. Ma il possibile, che entra nella realtà effettuale in quanto la realtà effettuale si dissolve, questo agisce, e provoca sia la sensazione della dissoluzione che il ricordo di ciò che si è dissolto».
Un poeta, sul quale da sempre aleggia lo stigma della pazzia, in alcuni brevi testi composti fra il 1795 e il 1804 ha il coraggio, che solo i folli si consentono, di galoppare verso il centro della verità. Dove una dissoluzione si realizza, assistiamo a uno sgretolarsi del reale e al nascere del possibile, di una realtà parallela e nuova ma non frammentaria: unitaria. Atonalità ed espressionismo hanno le loro radici nella frase sibillina e ordinatrice di un poeta. Chissà quale musica amava Hölderlin? Immagino, e qui agisce solo la fantasia, che l’ultimo Mozart avrebbe potuto sedurlo, il Mozart di alcune sonate ultime, con quegli adagi lunari in cui l’ascoltatore precipita e non sa più dove sia caduto e cosa sia accaduto. Chissà, allora, cosa argomentavano le scienze? Chi scopriva leggi della fisica e della matematica che avrebbero sciolto i legami e le convinzioni precedenti? Ti consiglio, a questo proposito, la lettura di un libro straordinario, né romanzo né saggio, del giovane cileno Benjamin Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo. Pochi mesi fa è uscito un altro suo librino, La pietra della follia. Ne discuteremo nella prossima lettera. Labatut non parla della musica come argomento ma la musica è, da sempre, il tema dominante dei mondi invisibili che evoca.
Friedrich Hölderlin Sul tragico con un saggio a cura di Remo Bodei, Feltrinelli, Milano 1989.
Benjamin Labatut Quando abbiamo smesso di capire il mondo Adelphi, Milano 2021.
Benjamin Labatut La pietra della follia Adelphi, Milano 2021.
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Francesco Denini
J. S. Bach, o dell’effettività del possibile
Questo passo di Hölderlin si pone sulla soglia tra reale e possibile. Nella Phaenomenologie des Geistes Hegel si rivolge al reale quale unico fatto effettivamente riconosciuto dalla ragione. Forse per il borghese tedesco l’atto di potere della Rivoluzione Francese ha potuto realmente esaurire ogni funzione ontologica chiamata ad afferrare il reale e quasi a sostituirlo nel fatto? Intanto, credo si possa dire che invece nel Hölderlin del passo che hai riportato il possibile entri in una dimensione effettuale estranea all’atto, una memoria dell’inizio, un momento/soglia della discernibilità tra possibile e reale, concernente un’idea dell’inizio come caos originario. Alain Badiou, in Etre et Evenement mi sembra esprimersi in termini piuttosto simili. O il Massimo Cacciari di Dell’inizio, direi, forse ancora nella risonanza dell’esperienza maturata col Prometeo con Luigi Nono.
Anche se la mia mente è portata a pensare alla Ciaccona per violino solo di Bach: un ‘compianto’ (dal ritmo in fondo simile a quello di sarabanda di Der Doppelgänger di Schubert), che inizia quasi come l’elaborazione di un lutto, un tema e 14 variazioni tanto tragiche quanto ‘laboriose’, quasi fossero stazioni di una via crucis che tornano su loro stesse, sconfitte dalla tragedia di partenza; senonché, dopo un corale in re maggiore che decide, con un cambio di modo dal minore al maggiore, il salto tra cielo e terra, l’abisso di identità tra Creatore e creatura, l’ispirazione della teologia della Croce, più propriamente luterana, sembra conformarsi (senza tradirsi) a una qualche teologia della Gloria, davvero una teodicea leibniziana in altre 14 stazioni, segnate dalla Speranza e da una memore gratitudine (con una radicalità nel cambio di modo che quasi solo Mahler ritroverà), dopo la quale una letizia nuova sembra ritrovare movimento nella ripetizione, temporalità nella ciclicità, creatività nell’armonia, non più solo dolore, e che porterà la tragedia tra le braccia della redenzione divina, qualcosa che non è ancora Gloria ma è visione della sensatezza per lo meno e finalmente sostenibile del dolore. Il possibile qui, al contrario che in Hegel, è già la redenzione dal duro reale. Forse che la follia di Hölderlin fosse tesa a salvare qualcosa di quella svanita prospettiva di gratitudine presente ancora in Leibniz e Bach? L’Es ist genug del Violinkonzert di Berg avrà un segno definitivamente dissolutivo, ma vivente ancora di qualche traccia di quella memoria.
E c’è una ‘passione di suoni residui’ oggi nella musica di Hemut Lachenmann, che sembra andare oltre l’estetica del trash, dell’ultima volontà di capire il mondo, per ritrovare in materie sonore del tutto ‘ai margini’ dei relitti di quella effettualità del possibile, fosse o no parvenza illusoria, che è ricordo non dissolto di ciò che si è dissolto.
Alexandre Kojève Introduzione alla lettura di Hegel Adelphi 1996 (testo originale in francese: Gallimard, Parigi 1947).
Alain Badiou Essere ed evento Melangolo, Genova, Melangolo 1995 (testo originale in francese: Editions de Seuil 1988).
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Marco Ercolani
Bach e oltre
L’idea dell’inizio come caos mi rimanda a un’immagine dei Diari di Kafka, dove scrive, il 5 giugno 1922: “Disposizione al lavoro di rappezzi”. Cosa mai avrà voluto dire? Che ogni artista ricuce gli strappi e riordina il caos, come può? Domande senza risposta. Immagini. Nessuna immagine sale dalle note. Esiste la matematica dei suoni: nient’altro. Salire, scendere, fermarsi. Ascolti e inventi grotte, cattedrali, città, ma non sono vere: presto capisci che è solo musica, che quello è il perfetto nulla e ti libera la mente: il suono, un filo di vetro, sembra infinito, oltre ogni caos, oltre ogni contrappunto che determina forme. Se ascolti il finale della Sonata opera 132 di Beethoven capirai ancora meglio: le note dell’Arietta sono una scala verso qualcosa di inaudito. Puoi chiamarlo dio, cielo, soffio, nulla: come vuoi. Schubert, nel Winterreise, descrive un viandante innamorato che piange e si dispera, ma sono le poesie a dirlo: la musica cosa ne sa, arde e si strugge da sola, di un fuoco assoluto che i versi sfiorano appena. E, negli adagi delle Sonate postume, oltrepassa l’impossibile astrazione dell’ultimo Beethoven. Quando riprende la melodia, dopo un intervallo tempestoso, fra rombi di note ascendenti e discendenti, la melodia sembra la stessa, ma è totalmente diversa, aliena: incrinata, esitante, assume dentro di sé una cantilena che la raddoppia; è inno notturno, offerta di sé. Ma già nelle Variazioni Goldberg non troviamo più l’io ordinatore e maestoso di Bach ma una cattedrale di note a cui l’interprete lavora rigoroso e paziente, come dentro uno spazio sacro, dentro una foresta di io molteplici, laboriosi, martellanti, l’artigiano trovasse il segreto del moto perpetuo. La sola musica ascoltabile è quella che fa diventare ossessi, credo, ma qui il mio pensiero deraglia. Torno a una ostinata predilezione, che tu già conosci. Perché amo così tanto Couperin? Perché a volte oppongo il suo fluido improvvisare alla serietà magistrale di Bach? Non ho mai creduto che Couperin fosse privo di un suo personale rigore ma trovo nella fluida ossessione delle sue note una libertà rara,che ritrovo solo nell’ultimo Mozart. Deliro? Spiegami, da musicista, come ha saputo creare quell’incantesimo…
J. Kafka Diari (a cura di E. Pocar) Mondadori, Milano 1983.
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Francesco Denini
Manganelli, o dell’onta del significato
Temo tu mi chieda qualcosa che immediatamente non saprei individuare. Sposo però l’idea di un’anima matematica di note e suoni. Le stesse forme di soggettività musicale sono anche, almeno nella musica occidentale (ma ho idea che accada anche in molte altre), il risultato degli strumenti matematici che ad ogni epoca accade di elaborare, della loro sottigliezza e della loro precisione, risultato volto spesso a spiazzare l’io, a sorprenderlo in modi diversi, a partecipare alle sue dinamiche di rassicurazione ma anche di esplorazione, sorpresa, desiderio e nuovo/diverso avviamento alla vita. Qui sta molta parte del mio interesse profondo per la musica e il pensiero di Hughes Dufourt.
E potrei dirmi tentato d’usare il rasoio di Occam sullo strumentario eccedente di certa semiotica musicale. Perciò forse rischio poi di eccedere nell’ipotizzare come Bach pensasse la Ciaccona? Mi muove lo stesso spirito apocrifo con cui è sorta in te la domanda, intrigato dalle ultime sonate di Mozart, attorno a quale musica avrebbe amato Hölderlin, alla ricerca di cosa possa aver generato in lui un più sottile sguardo al possibile? È una storia che farei risalire ad Aristotele, quando, nella Poetica, sostiene il primato della poesia sulla storia perché la poesia è intesa al possibile piuttosto che al reale.
E forse è questo aspetto che mi intriga di più nel passo di Hölderlin che hai letto. Ma credo di non fare un torto né a Hölderlin né a Hegel – loro consapevoli – se dico che Leibniz solamente aveva posto al centro del suo pensiero le virtù del possibile. E se ha un senso notare relazioni tra Hegel e Beethoven, allora ha senso, in quest’ottica, notare relazioni tra Bach e Leibniz.
Coglieva nel segno però Manganelli, lo ammetto, quando auscultava l’onta del significato che pervade la musica. Da ragazzo, mi son trovato incoraggiato a scrivere, bene o male, brani à la Feldman e a leggere Manganelli, mentre studiavo il violino. Una distrazione o un percorso personale? Ho amato le Sonate e Partite di Bach quasi fossero uno scudo protettivo rispetto al modello competitivo ‘Paganini’ (per altro ammiratissimo). I miei amori di allora sono stati spesso slanci di ‘trasformazione’: non ero fornito di illimitate qualità naturali? Ero un eretico in cerca di guide? Un narcisista in cerca dell’altro? L’artificio non mi spaventava, anzi mi appariva l’unica apertura al possibile, l’unico modo per rendermi possibili cose altrimenti precluse. E Bach mi parve (questo lo ricordo bene) il migliore artigiano tra gli irraggiungibili ideali dell’io. Forse Couperin era più dotato naturalmente? È possibile. Non credo però che Bach si sarebbe riconosciuto nei nazionalismi novecenteschi che lo metteranno a caposcuola di un mondo non suo. Il discorso sarebbe lungo. E, ancor più lungo per Mozart.
Si danno oggi interpretazioni diversissime delle Sonate e partite – penso a Midori Seiler, a Isabelle Faust, Giuliano Carmignola, Sato (della Netherlands Bach Society) – in cui non trovo più nulla di ‘organistico’ o di rigido: alcuni rimpiangono le interpretazioni delle generazioni precedenti, forse più autorevoli, talvolta monumentali, ma in cui sento meno l’azione di apertura verso il possibile. Ci sono momenti, e non parlo dei brani più grandi, in cui Bach, svolgendo una ‘semplice’ melodia è capace di spiazzare, di non rendersi prevedibile in virtù di una polifonia e di un continuo riferimento armonico interni alla melodia (e sospetto sia questo che ha suscitato tanto interesse per Bach in molti jazzisti). Se poi vedi nelle Variazioni Goldberg un oltrepassamento dall’interno del suo stesso ‘artigianato furioso’ (per dirla con Jabès), bene, questo lo condivido assolutamente.
L’incontro con l’opera in divenire di Sylvano Bussotti mi ha messo in contatto con domande sull’ontologia dell’opera d’arte. La musica è la partitura? La partitura è un progetto, una scrittura, un disegno, uno schizzo, un cenno? Oppure l’essenza dell’opera è una scena interpretativa? Ma chi è l’interprete musicale, cosa veramente fa? Sono domande parallele a molte domande messe in gioco da John Cage, ma che Bussotti attiva all’interno dell’opera (come infondo avviene in Bach), mentre per John Cage l’opera è del tutto accidentale (e talvolta forte proprio della sua inessenzialità, esattamente come in Satie).
Il problema vero, però, semmai, è ancora davvero in Beethoven, che supera e anticipa tutti, anche se stesso, per una virtù della musica di ‘deragliare dialetticamente’ oltre ogni ‘rappresentazione’, in quanto più vicina al conatus, al Wille stesso, alla volontà, in un senso più pregnante di quanto non accada nella filosofia e nella letteratura, qualcosa che Beethoven ha colto e inseguito più di ogni altro. Lui, sì, è – in un certo senso – un primo vero avversario consapevole del ‘significato’ musicale.
Giorgio Manganelli Una profonda invidia per la musica L’orma editore 2018.
Aristotele Poetica PBE Torino 2008.
Giuliano Carmignola: J. S. Bach Sonate e Partite Deutsche Gramophon 2020.
Enzo Cresti Sylvano Bussotti. L’opera geniale Maschietto Editore 2021.
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Marco Ercolani
Ludwig
Più si inoltra nella maturità, più Beethoven, eroico e drammatico, deraglia da ogni ‘significato’ musicale. La sordità solo in parte lo giustifica. La separazione dalle sonorità del mondo aggrava un processo già in atto. La musica è portata a radici aeree, inespugnabili. La Bagattella n. 7 opera 119 è dominata da un trillo demoniaco. Quel suono pianistico non avrà eredi. La musica estrema di Beethoven inventa un oltrespazio che Mahler (talvolta), Berg (in parte), Maderna (forse) visiteranno, ma solo ai margini, come ospiti.
Nessuna razionalità ci verrà in soccorso. Nessun senso reggerà le architetture celesti e diaboliche del Quartetto Opera 131. Ti parlo senza cognizioni musicali. Ti parlo di Beethoven come di un io alieno e molteplice, senza il quale non concepirei l’esistenza della musica.
L’ultimo tempo della Sonata Aurora, nell’esecuzione di Schnabel, ne è la conferma. Cosa sto realmente ascoltando? Niente di descrivibile. Forse, nella magia di certe sonate di Scarlatti, ritrovo la stessa, incomprensibile leggerezza.come se il suono avesse cessato di esistere. Dopo Beethoven, solo in certe Rapsodie di Brahms potrò udire qualcosa che si fa beffe di ogni idea, di ogni tema, della musica stessa. Ieri, ascoltando il jazzista John Taylor, sono stato afferrato da un’emozione simile. Lui suonava, io ascoltavo, ma cosa stava accadendo? Perdevo ogni limite, ogni forma, ma sapevo che proprio quella era la forma che volevo.
Giovanni Baldini – Lorenzo Baldini Artur Schnabel. Interprete delle 32 Sonate di Beethoven Mimesis, Milano 2022.